Hai detto vendere?… un nuovo approccio alle vendite per gestire la complessità

Premessa: questo articolo prende spunto dalla percezione che, tra le varie tipologie di organizzazioni (o nello specifico all’interno dei diversi processi aziendali) ciò che concerne le vendite presenti spesso un evidente ritardo di evoluzione. Alla base dei ragionamenti che seguono sono l’esperienza on field di diversi anni e l’approfondimento bibliografico (di cui si fornisce un estratto sintetico in calce). Nella stesura ci si è resi conto di come l’argomento trattato risulti estremamente ampio e denso di ramificazioni: si è scelto d’altra parte di concentrare l’intera argomentazione, confidando così di fornire un quadro generale e diversi spunti di riflessione che ci si impegna a riprendere (più dettagliatamente) in futuro.
Il primo impegno è quello di pubblicare al più presto una versione in lingua inglese.

E’ indubbio come la situazione di mercato attuale costringa le organizzazioni aziendali a lavorare secondo modalità decisamente più sfidanti rispetto al passato. Governare – e non subire – le evoluzioni del proprio business rende necessaria la capacità di navigare la complessità che caratterizza i nostri giorni. La realtà in cui operiamo ci costringe a superare gli schemi predittivi che erano caratteristici dell’analisi dei processi economici fino all’inizio di questo secolo, per concentrarci maggiormente nella capacità di lettura del presente e nella rielaborazione dei propri obiettivi (e/o delle proprie strategie) con tempi di reazione brevissimi. Sono certamente questi i motivi che rendono le organizzazioni agili maggiormente preparate alle continue evoluzioni del mercato (e della nostra società) attuale.

Se è vero che i principi e gli strumenti operativi Agile si sono sviluppati prepotentemente soprattutto in ambito IT/software ed ivi trovano ancor oggi continua evoluzione, a partire dalle diverse declinazioni metodologiche (che si tratti di SCRUM, KANBAN o altro), è altresì riscontrabile come un sempre maggior numero di aziende, legate alle più diverse categorie merceologiche/produttive, stiano rivedendo i propri schemi organizzativi ed i propri processi, implementando metodologie agile e – soprattutto – intraprendendo un percorso di rivoluzione della mentalità condivisa (mindset) e della cultura aziendale. La letteratura ad oggi esistente ci dimostra che le aziende che hanno saputo lavorare correttamente sull’organizational agility hanno riscontrato decisi miglioramenti in termini di performance (particolarmente per quanto riguarda la redditività) ed hanno saputo presidiare al meglio i propri contesti di riferimento, incrementando non di rado il market share, dimostrando quindi di essere assolutamente pronte a rispondere ai continui scostamenti del mercato. L’attuale crisi scaturita da un’assolutamente imprevedibile pandemia non fa che sottolineare come solo le aziende capaci di muoversi rapidamente, adattarsi, evolversi e quindi rispondere alle esigenze del contesto – ed in primis dei propri clienti – saranno in grado di competere nel prossimo futuro.

Le nuove necessità delle imprese commerciali.

Molto spesso (e non del tutto erroneamente) consideriamo questi meccanismi evolutivi come propri di organizzazioni a ciclo produttivo completo, che debbano costantemente rispondere alle esigenze del cliente attraverso lo sviluppo dei prodotti/servizi più adatti e competitivi. Oggi come oggi, tuttavia, è quantomai centrale comprendere come nuove modalità organizzative e gestionali debbano interessare anche organizzazioni di tipo prettamente commerciale: il che è ciò che ci interessa indagare in questo articolo.

Il processo di vendita (sia esso parte di una filiera più lunga o “core” dell’organizzazione) restituisce oggi nuove sfide ed urgenti necessità che spesso il management aziendale non è pronto ad affrontare, semplicemente perché gli strumenti – e gli schemi mentali – che sono stati finora utilizzati non risultano più funzionali allo scopo: ciò è tanto evidente nelle realtà B2C quanto pericolosamente sotteso ad ormai arcaiche sovrastrutture in quelle B2B. Abbiamo ormai assunto che le aziende fortemente customer oriented (o customer-centriche), che debbono rivolgersi sempre più al fruitore finale (end-user) del proprio prodotto/servizio, non possono che indirizzarsi verso strutture dinamiche e fortemente responsive per poter continuare a giocare il proprio ruolo sul mercato: tuttavia anche chi si rivolge a clienti tipicamente “professionali” e che spesso lavora all’interno di filiere o catene distributive lunghe si trova di fronte all’improrogabile necessità di scardinare le sovrastrutture e gli schematismi che incancreniscono il proprio business per abbracciare nuovi approcci e – alla fine, soprattutto – un nuovo mindset. Come ci suggerisce l’ottimo libro di F. Lisca <<Business Agility. Che cosa è, come funziona e perché oggi è necessaria>>, tentare di rispondere alla complessità rimanendo ancorati ai paradigmi convenzionali non è solo anacronistico ma controproducente, non è più possibile infatti l’applicazione profittevole del classico schema di “predizione e controllo” (evoluzione industriale del più arcaico paradigma di comando e controllo). Diviene quantomai evidente come ormai basarsi sull’esperienza passata spesso non garantisca un successo futuro, ma al contrario divenga un forte limite. Questo passaggio evolutivo è fondamentale! Dobbiamo rendere le nostre organizzazioni sempre meno product-centered e sempre più customer-centered, dobbiamo spostare il focus (anche e soprattutto in ambito B2B) dagli output, dalla spinta, dalla produzione, dalla resa per concentrarci sui risultati per il cliente, sugli esiti di sistema, su quelli che insomma potremmo definire outcome. Smettiamo di chiederci solo “cosa” e “come” e domandiamoci piuttosto “perché”, usciamo dai meccanismi di downloading mentale, che ci spingono a riprodurre in continuazione le stesse soluzioni (con poche e superficiali variabili) in risposta alle criticità affrontate e diamo spazio a percorsi che favoriscano una reale innovazione, di prodotto, servizio o processo (su questo tema si veda l’ottimo approfondimento di R. Panetti in << Theory U, learning organizations e design thinking. Strategie, strumenti e tecniche per l’innovazione profonda>>).

La creazione di valore.

Gli assunti generali che distinguono l’area di negoziazione e vendita non sono cambiati nel tempo (dacché ne abbiamo consapevolezza storica): un processo di vendita trova il suo fine nella creazione di valore, se non siamo in grado di creare valore non facciamo che appesantire i costi (più o meno nascosti) di filiera e diminuire la redditività globale del sistema. Se una tale realtà era fino ad alcuni anni addietro sostenibile (spesso “scaricata” sull’end-user) oggi non è più così, anzi il rischio è quello di trovarsi da “leader” ad “out of the market” in tempi estremamente rapidi e senza aver propriamente compreso i termini di tale ribaltamento di prospettiva. Questa situazione ci costringe ad una riflessione aperta e profonda sulla capacità delle nostre organizzazioni di creare realmente – e costantemente – valore negli iter di processo: dobbiamo essere pronti a mettere in discussione gli schemi con cui abbiamo finora letto la realtà per approcciare il mercato con una nuova prospettiva, con una mentalità Agile. Tale cambiamento deve coinvolgere tutti i dipartimenti e tutti i livelli aziendali e non può prescindere, soprattutto in una prima fase, da un forte commitment da parte della leadership.

Uno strumento fondamentale che dobbiamo necessariamente imparare ad utilizzare – nelle sue diverse declinazioni – per approcciare una revisione dei nostri processi di vendita, comprendendo dove, come e se realmente stiamo creando valore è la Value Chain Analysis, uno dei tools centrali nelle metodologie di tipo design thinking.

In questo caso sono in primis le figure aziendali più coinvolte nel processo di vendita e nel rapporto col cliente a dover costruire degli schemi di valutazione oggettivi che consentano di disvelare quali possano essere le chiavi per creare valore (a vari livelli) durante il processo di vendita. Questo basilare approccio è spesso sconosciuto in molte delle nostre aziende, mentre ci consentirebbe di entrare veramente in relazione con i nostri clienti ed in generale con tutti i nostri interlocutori (stakeholder) nella filiera.

Il design thinking ed un nuovo mindset nell’approccio ai clienti.

Un’altra tecnica, presa a prestito dai processi di design thinking ed estremamente efficace in fase di analisi è la mappatura del Customer Journey.

Il Customer Journey Mapping è un modello di rappresentazione (in vari formati grafici) dell’esperienza del cliente e dei vari stakeholder nel loro lavorare alla realizzazione di qualcosa vissuto come importante per se stessi: può rilevare il “viaggio reale” o il “viaggio ideale/perfetto” della parte interessata. Attraverso il customer journey possiamo approfondire il processo di acquisto di un bene/servizio, la sua scelta e/o la successiva fruizione, nonché tutti i processi che – a latere – interessano i diversi soggetti. Fondamentali divengono quindi la capacità di dialogo ed ascolto, un approccio empatico e lo spirito di immedesimazione (ovvero, in buona sostanza, l’assumere il punto di vista dei diversi stakeholder) che se correttamente esercitati ci consegnano un ottimo strumento per comprendere meglio la realtà in cui si muovono i vari “attori”.

Queste ed altre tecniche di approccio alla costruzione di valore nel processo di vendita ci costringono (in termini assolutamente positivi) a immaginare il nostro rapporto con i clienti come un vero e proprio progetto costruito sulle reali esigenze – più o meno consapevoli – di ogni nostro singolo interlocutore, nella piena consapevolezza del ruolo di ogni cliente e di ogni stakeholder all’interno dell’intera filiera/catena del valore. Tale prospettiva rappresenta l’unica base possibile per implementare quella mentalità realmente cliente-centrica che è uno dei principali asset delle aziende oggi più competitive. Flessibilità, Tailoring/Customization ed Empatia dovranno quindi divenire le nostre parole d’ordine: ogni interlocutore all’interno della filiera (produttiva o distributiva) è un nostro cliente ed ogni cliente diventa il centro del nostro processo di design. Non importa quali tools decideremo di utilizzare nel costruire questo nuovo tipo di rapporto con il cliente (diversi contesti e/o diverse attitudini ci portano a diversi strumenti, anche questo ci insegna il pensiero progettuale), rimane fondamentale il mindset che dovremo abbracciare per divenire realmente efficaci nel farlo.

Al centro di questo nuovo approccio con i nostri interlocutori – esterni ed interni – metteremo dunque ciò che chiamiamo empatia. L’empatia è definita (enc. Treccani) come la capacità di porsi nella situazione di un’altra persona o, più esattamente, di comprendere immediatamente i processi psichici dell’altro (con questo termine si suole rendere in italiano quello tedesco di Einfühlung). La mentalità del designer è basata ed è pregna di empatia, di ciò che potremmo definire “connessione emozionale”, a tutti i livelli: solo un approccio empatico ci consente infatti di leggere appieno, durante l’ascolto (attivo!) e l’osservazione diretta, quali sono le reali esigenze (particolarmente quelle nascoste/inespresse) e gli stati emotivi dei vari attori che concorrono alla creazione della nostra storia, ovvero del nostro progetto. L’empatia è uno stato mentale che può essere allenato e rappresenta una delle soft-skills ad oggi indispensabili all’interno di organizzazioni Agile e cliente-centriche.

Possiamo dunque sintetizzare osservando come – ad oggi – nel nostro rapporto con i clienti, anche e soprattutto in ambito B2B:

  • Non possiamo più offrire semplicemente soluzioni (problem solving), ma dobbiamo disegnare progetti con ogni singolo cliente
  • Dobbiamo focalizzarci sulla creazione di valore
  • Dobbiamo porci l’obiettivo di “crescere insieme”
  • Dobbiamo lavorare sull’empatia
  • Dobbiamo comunicare attivamente con i nostri interlocutori e saper condividere le nostre skills così come i reciproci obiettivi (purpose) e le strategie attuative
  • Dobbiamo clusterizzare/suddividere i nostri clienti con una nuova metodologia che evidenzi la loro volontà di condivisione (sharing) e integrazione, a vantaggio di una sempre maggiore creazione di valore nel processo di vendita

Una nuova enfasi sulla partnership ed un nuovo sistema di classificazione dei clienti.

Il concetto di partnership è stato ampiamente utilizzato (e spesso abusato) nel corso degli ultimi 50 anni in ambito sales&marketing. Non ci interessa in questa sede farne una sintesi storico-concettuale, quanto più porre evidenza su come ai nostri giorni si declini tra fornitore e cliente, particolarmente in ambito B2B, ciò che definiamo con questo termine.

Potremmo asserire che ciò che chiamiamo partnership è ad oggi principalmente un insieme fluido e dinamico di informazioni scambiate (in una sorta di osmosi), condivisione ed integrazione tra soggetti che condividono – almeno parzialmente – uno scopo (legato allo sviluppo del proprio business). In una realtà estremamente mobile e sfidante non è più sufficiente guardare nella stessa direzione, è necessario ciò che chiameremo una profonda “volontà di sharing” tra le parti, la creazione di una sorta di rapporto simbiotico, molto più dinamico ed efficiente. In biologia definiamo come simbiosi “l’associazione intima, spesso obbligata, fra organismi (animali o vegetali) di specie diverse, che generalmente comporta fenomeni di coevoluzione” [Enc. Treccani].

Un discorso a parte meriterebbe la possibilità di lavorare sulla “coevoluzione”, pur tuttavia, già in questa breve definizione è possibile ritrovare il senso profondo di ciò a cui oggi dovremmo aspirare nel creare un rapporto di partnership tra cliente e fornitore. E’ la natura stessa – ricordiamoci che le scienze naturali svelano un mondo fatto di sistemi complessi e ci mostrano come la vita li affronta, ovvero ci “insegnano” la complessità – a offrirci una grandissima quantità di case history positive (specialmente in quei tipi di simbiosi che vengono definite mutualistiche): api e fiori, pesci e crostacei, anemone e pesce pagliaccio, formiche ed afidi… potremmo continuare a lungo. La vita si è sviluppata sul nostro pianeta in un insieme di interrelazioni incredibilmente complesso proprio grazie a rapporti simbiotici. Non è un caso che già da tempo si utilizzi questo termine anche in ambito industriale. Concetto particolarmente legato agli approcci “green” ed all’economia circolare, la simbiosi industriale è sostanzialmente la messa in atto di pratiche virtuose per lo scambio di risorse (ossia materia, energia, acqua, sottoprodotti o esperienza) tra industrie tradizionalmente separate, al fine di realizzare con un approccio integrato uno strumento per la chiusura dei cicli delle risorse.

Nulla di strano quindi se pensiamo sia venuto il momento di applicare con decisione l’idea di simbiosi-sharing-partnership anche nei rapporti di filiera e di rimando riguardo ai processi di vendita.

Se dunque le relazioni tra le parti coinvolte in un processo di vendita si basano sempre più su un concetto di partnership intesa come “sharing” (dei propri scopi, strategie, skills, etc), allora dobbiamo dotarci di strumenti di analisi e classificazione (clustering) dei clienti adatte ad evidenziare tale realtà.

Le classiche matrici di classificazione X-Y basate sui modelli BCG – GE che potremmo genericamente considerare fondate sull’idea di “posizionamento” e “potenzialità”, applicabili quindi tanto ad un mercato target, quanto ad un prodotto o un’azienda, possono rappresentare un punto di partenza importante ma vanno certamente implementate ed in un certo senso superate, per consentirci di descrivere meglio la realtà.

Normalmente infatti partiremmo dal definire il nostro posizionamento in rapporto al nostro cliente (o, all’inverso, la sua esposizione merceologica verso di noi), il che in un certo modo definisce il reciproco valore del rapporto commerciale, sull’asse X per poi concentrarci sulle sue potenzialità di crescita, in scala sull’asse Y, definite principalmente dal contesto e dalle caratteristiche intrinseche del soggetto. In questo classico sistema di classificazione a due dimensioni tutto ciò che inerisce a quanto abbiamo definito come partnership viene inserito nella valutazione del posizionamento (ascisse): ciò tuttavia non ne restituisce il fondamentale valore, né evidenzia a sufficienza la sua dimensione quantitativa. Noi crediamo che diventi vieppiù necessario estrapolare questo “valore di partnership” e descriverlo attraverso l’aggiunta di un ulteriore asse Z, lavorando così attraverso una molto più responsiva matrice a tre dimensioni.

3P-Matrix

Le variabili di questa nuova matrice definiranno quindi le tre “P” che ci aiutano a clusterizzare i nostri clienti:

  • Asse X: Posizionamento (positioning)
  • Asse Y: Potenziale (potential)
  • Asse Z: Partnership

Classicamente quindi andremo a definire delle survey/check lists, adatte al nostro contesto di mercato, che ci restituiscano un valore da 1 a 10 – in scala lineare – su posizionamento e potenziale. I valori restituiti per l’asse Z andranno invece riconfigurati con una scala non lineare, tenendo conto che questi rapporti, che abbiamo definito “simbiotici”, crescono esponenzialmente in termini di profittabilità quanto più i sistemi risultano integrati, mentre la differenza a livello più basso può arrivare ad essere poco percepibile; per correggere dunque questo tipo di distorsione e restituire un posizionamento realistico il valore da 1 a 10 individuato dalla survey andrà convertito in 1,3(z). Troveremo dunque due assi a scala lineare ed uno a scala esponenziale.

Il rilevamento del livello di partnership dovrà necessariamente tenere conto di quattro principali macroaree (il cui peso sarà definito in base al contesto in analisi):

  • integrazione tecnologica
  • condivisione/integrazione delle strategie
  • formazione
  • compartecipazione/gestione economico-amministrativa.
Martice 1 & Matrice 2

Questo tipo di analisi ci permette di classificare – in maniera semplice ma approfondita – il nostro parco clienti (esistenti o potenziali) in specifici cluster omogenei su tre dimensioni, tale suddivisione porta in luce le caratteristiche comuni ed al contempo definisce un valore assoluto, che restituisce una gerarchia lineare. I tal modo, lavorando su due diversi livelli descrittivi, saremo in grado di migliorare sensibilmente la capacità della nostra organizzazione di individuare con precisione i focus-customer e di implementare un monitoraggio costante ed efficace del mercato/contesto in cui operiamo (o desideriamo

operare).

  • Valore assoluto (matr.3): dato dal volume del parallelepipedo descritto dai valori degli assi x·y·1,3(z)
  • Posizionamento/cluster (matr.4): dato dalle coordinate sugli assi
Matrice 3 & Matrice 4

Diversi clienti – diversi team

Ma qual è dunque il vantaggio pratico di una più completa classificazione/clusterizzazione dei clienti? Nell’ottica di rendere più efficace la nostra azione commerciale (creare sempre più valore nel processo di vendita), di implementare un mindset cliente-centrico e di ricostruire le nostre aziende in ottica Agile per renderle più flessibili, rapide e responsive, saremo in grado, grazie alla 3P-Matrix di valutare quali diversi team di lavoro saranno in grado di “gestire” al meglio le diverse tipologie (cluster) di clienti ed al contempo con quali priorità (gerarchia). Assumendo infatti che esista l’imprescindibile necessità di superare la semplice erogazione di un prodotto o servizio, non possiamo che prendere in considerazione la formazione di team crossfunzionali, in cui le differenti competenze (hard-skills) dei membri possano integrarsi al meglio nell’ottica di soddisfare le esigenze dei clienti e i cambiamenti del mercato.

Questi “Agile teams” dovranno lavorare in maniera fluida, incorporando o distaccando componenti in relazione alle reali necessità creative ed operative, dovranno essere estremamente recettivi (con una sorta di vera ossessione per reframing e course-correction) e formalmente indipendenti, dotati di tutta la libertà decisionale utile al raggiungimento degli obiettivi. Come ci insegnano numerosi case study negli ultimi anni, non sarà nemmeno necessario un vero e proprio team-leader o un manager per gestirli – anche se inizialmente un coach o un facilitatore possono essere d’aiuto – perché saranno guidati da continui feedback, dovranno divenire inequivocabilmente data-driven (laddove per dati si intendano tanto report quantitativi quanto qualitativi, purché basati su una metrica condivisa).

Gli attuali strumenti tecnologici, se adeguatamente utilizzati, ci garantiscono estrema efficacia e trasparenza nel flusso di informazioni (e quindi anche nella gestione dei feedback), just in time e senza limitazioni fisiche (non sempre i team di lavoro possono o debbono condividere lo stesso spazio). CRM, database condivisi, software di project management, chat e social intra-aziendali, sono mezzi fondamentali per la transizione ad organizzazioni Agile; si tratta di tecnologie consolidate, ma che spesso vengono utilizzate per una quota irrisoria del loro potenziale.

Come ci suggerisce il recente studio di Pulakos, Kantrowitz e Schneider <<What leads to organizational Agility?>>, perché un’organizzazione de-gerarchizzata e crossfunzionale, in grado di lavorare con mentalità Agile possa risultare realmente funzionale esistono tre differenziatori fondamentali da prendere in considerazione: team della giusta dimensione/composizione ed in grado di ottimizzare i tempi di lavoro, una incessante capacità di revisione (relentless course-correction), cose a cui in termini generali abbiamo precedentemente accennato, e – non ultima – la stabilità, sebbene questo possa sembrare quasi paradossale pensando ad organizzazioni Agile. Chiariamo quindi come per “stabilità” si intenda sostanzialmente uno stato psicologico, associato ai collaboratori di un’organizzazione, i quali percepiscono un senso di sicurezza e confidenza riguardo al proprio ruolo ed alla direzione che l’azienda sta seguendo; tale stato aiuta fortemente a rafforzare il commitment dei singoli individui ed a mantenere il loro focus sul lavoro da svolgere. Nel modello di lavoro che stiamo costruendo i driver primari della stabilità sono rappresentati proprio dal purpose (lo scopo, l’obiettivo ultimo dell’organizzazione, che sostituisce il concetto di “strategia”) e dal company-commitment (l’idea, la sensazione che l’intera organizzazione si stia impegnando, in termini assolutamente proattivi, nell’introdurre un nuovo mindset). Sarà compito della leadership aziendale – in prima battuta – riuscire a tradurre e trasmettere in maniera estremamente condivisa un purpose esplicito, sfidante e positivo ed a rendere quest’ultimo, così come i nuovi processi di lavoro, parte di una company culture condivisa: più questo processo sarà favorito dal basso (bottom-up) e non spinto dall’alto (con un classico change management di tipo waterfall), più la transizione sarà strutturale e stabile, con collaboratori coinvolti e fortemente focalizzati sul raggiungimento degli obiettivi.

Conclusioni

In quest’ottica di profondo cambiamento – un cambiamento davvero dirompente – comprendiamo quindi come la via per rendere le nostre aziende (anche quelle di tipo più genuinamente commerciale) attuali e competitive debba necessariamente passare per l’implementazione di un nuovo mindset e di conseguenza di un nuovo approccio al design delle organizzazioni: più agili, flessibili, reattive e soprattutto realmente centrate sul cliente! Un tale processo evolutivo opera in profondità, ma deve al contempo riuscire ad esplicitarsi: “abbattiamo” i silos in cui ancora sono incardinate le nostre business units o i nostri reparti aziendali, superiamo gli organigrammi e gli schematismi piramidali, condividiamo incessantemente informazioni e responsabilità (accountability), evolviamo manager (e leader) in coach/facilitatori, sostituiamo – per chi è in prima battuta sul mercato – il concetto di sales representative  con quello di business consultant onde cristallizzare l’idea che stiamo spostando il focus dalla vendita in sé (output) alla creazione di valore per il cliente (outcome).

Questo processo di mindset resetting, nella sua natura di evoluzione permanente, assume la fisionomia di un grande viaggio, un viaggio estremamente avvincente – seppur non certo semplice – che, se fatto nostro, può davvero regalare alle nostre aziende (ed al corpus dei propri collaboratori) successi precedentemente impensabili.

Un ringraziamento particolare per il costante supporto, stimolo e confronto va ai colleghi con cui quotidianamente si lavora (o in passato si è collaborato) per sviluppare, evolvere e ridefinire il modo in cui le organizzazioni si interfacciano con il mercato e con i propri clienti.

Bibliografia

“What Leads to organizational Agility: it’s not what you think”, E. Pulakos, T. Kantrowitz, B. Schneider, American Psychological Ass., 2019

“How to Make Sure Agile Teams Can Work Together”, Crocker , Cross, Gardner, HBR, May 2017

“The designing for Growth Field Book”, Liedtka, Ogilvie, Brozenske, Columbia Business School Pub., 2019

“Theory U, learning organizations e design thinking. Strategie, strumenti e tecniche per l’innovazione profonda”, R. Panetti, Franco Angeli Ed., 2017

“Theory U: Leading from the Future as It Emerges“, O. Sharmer, McGraw-Hill Education; 2nd Ed., 2016

“Reinventing the Organization: How Companies Can Deliver Radically Greater Value in Fast-Changing Markets”, Yeung, Ulrich, Harvard Business School, 2019

“Business agility: Che cosa è, come funziona e perché oggi è necessaria”, F. Lisca, Franco Angeli Ed., 2019

“Doing Agile Right: Transformation Without Chaos”, Rigby, Elk, Berez, Harvard Business Review Press, 2020

“Change by Design: How Design Thinking Transforms Organizations and Inspires Innovation”, Brown, Katz, Harperbusiness, (Updated edition) 2019

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